sabato 12 febbraio 2011

Tu vuo' fa' l'italiano...

Per arrivare ad una risposta, nella vita, forse bisogna prima porsi delle domande. Ecco, poniamo il caso che una coppia partorisce il proprio figlio in Brasile, a Presidente Prudente. E supponiamo che la coppia in questione si trovi lì per motivi di lavoro e che dopo venti giorni dalla nascita tutto il nuovo nucleo familiare torni per sempre in Italia.
Antonio Carlos (chiameremo così il nostro oggetto del contendere) cresce sul suolo italiano, va normalmente a scuola dove acquisisce la cultura italiana. Mangia secondo la nostra tradizione culinaria e i suoi usi e costumi sono tipicamente quelli degli abitanti dello Stivale. Cosa pensiamo di Antonio Carlos? Che è brasiliano perché è nato in quella meravigliosa nazione sudamericana oppure che è un italiano perché, di fatto, è cresciuto (non solo fisicamente, ma anche culturalmente) nella nostra penisola? Mettiamo invece che Amantino sia nato in Brasile perché mamma e papà sono anch’essi cresciuti lì, figli di emigrati dall’Italia negli anni Trenta. Amantino continua a vivere in Brasile, parla portoghese, conosce a menadito tutte le squadre del campionato paulista. Amantino diventa grande, a quasi trent’anni arriva in Italia per lavoro, ma non parla la nostra lingua, è abituato a mangiare altri cibi. Passano un paio di anni e Amantino si adatta perfettamente al nostro stile di vita, inizia ad apprezzare la cultura italiana e il nostro cibo. Ecco, possiamo dire che Amantino è italiano solo perché il nonno lo era ottant’anni fa? Credo proprio di no. Ecco perché la convocazione di Thiago Motta (e prima ancora di Camoranesi, tanto per far capire che nessuno ce l’ha personalmente con il centrocampista dell’Inter) ha fatto storcere il muso a molti appassionati azzurri. Si naturalizza con troppa facilità un giocatore e qui non c’entra nulla il razzismo. Possiamo forse contestare l’italianità di Balotelli? No, perché è nato a Palermo ed è cresciuto nella nostra nazione. Proprio come Okaka, che è nato in provincia di Perugia e che è stato un punto fermo delle nazionali giovani. Il colore della pelle non importa. E’ importante, invece, acquisire la cultura del territorio dove si cresce. Ecco perché in molti non considerano giocatori come  Thiago Motta (ma anche come Amauri e come Camoranesi, tanto per citare casi recenti) un italiano, anche se i nonni lo erano. I nonni, appunto. E non conoscere l’inno di Mameli non è una prova che depone a suo favore. E non bisogna dimenticare, poi, che il mediano interista ha vestito nel 2003 la maglia della Selaçao. Insomma, se uno gioca nel Brasile poi non può cambiare nazione e vestire la maglia azzurra. Quella di Prandelli è sembrata una scelta dettata dall’opportunità e non dobbiamo stupirci, poi, se il nostro calcio non riesce più ad esprimere talenti assoluti. Forse sarebbe meglio avere meno qualità in mezzo al campo, anche a costo di doverci rimettere qualche risultato. Pazienza, ci sarà tempo per crescere.  Bisognerebbe schierare… Cigarini, Aquilani, Morrone o chiunque altro possa dire a squarciagola, come Toto Cutugno, «lasciatemi cantare, perché ne sono fiero, sono un italiano, un italiano vero!».

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